Privacy: ci rubano l’arcobaleno per farci vivere in un acquario grigiastro!

WhatsApp e simili applicazioni chiedono continuamente l’autorizzazione ad accedere alla posizione. E così sanno dove siamo.

Google monitora i nostri accessi, quello che cerchiamo online e lo ripropone di continuo. Si chiama profiling.

Ogni giorno riceviamo telefonate di proposte commerciali da parte di società di cui non conosciamo neppure l’esistenza. È chiaro che qualcuno vede i big-data.

Sui quotidiani e online spiegano come violare i social, e non è affatto difficile, neppure per un profano come il sottoscritto, figuriamoci per cui si destreggia online.

Se guardate il profilo Facebook, e magari di altri social, di una persona che non conoscete ne potrete comprendere frequentazioni, gusti ed orientamenti.

Tutto questo fa sì che noi si viva quasi in una vetrina, come dei pesci in un acquario.

E di tutto questo non ci rendiamo neppure conto.

Siamo talmente avanti in questo processo che ne siamo integrati, è divenuto normale condividere ciò che non va svelato.

Ed invece è tutto sbagliato.

È sbagliato non tenere riservati molti aspetti della propria vita, perché la riservatezza ci consente di sviluppare concretamente è completamente la nostra personalità che si comprime, si limita e si svilisce condividendola con altri.

Siamo noi a dover porre un freno a tutto ciò perché il sistema spinge in vari modi per l’annullamento della privacy, che viene addirittura intesa in senso dispregiativo.

Dobbiamo fermarci un attimo e riflettere.

Quello che dobbiamo chiederci è: a chi conviene?

Se analizzando attentamente rispondiamo non a noi, ma alle Big Companies, allora dovremmo deciderci ad agire diversamente.

L’illusoria comodità della condivisione la paghiamo a caro prezzo, perdendo innanzi tutto la nostra specificità, perdendo in sostanza noi stessi e le nostre potenzialità.

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